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ANCORA OGGI

Con il nome Franco CFA (acronimo di “Comunità Finanziaria Africana”) si indicano, in realtà, due monete differenti, cioè il Franco dell’unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA) che è in uso in Benin, Burkina Faso, Costa D’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo e il Franco della comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC) che circola, invece, in Camerun, Chad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo. Il Franco fu creato nel 1945 come “Franco delle colonie francesi in Africa” ma ancora oggi, nonostante tutti i paesi africani abbiano raggiunto l’indipendenza negli anni 60, è oggetto di sfruttamento e guadagno nelle casse dell’Eliseo. Infatti, mediante un neocolonialismo, principale responsabile della mancata crescita di gran parte degli stati africani, le casse francesi lucrano sui cambi monetari africani. Andando più nel dettaglio, per esempio, se un cittadino del Mali volesse cambiare un Franco per spenderlo nel Niger, dovrà prima convertirlo in euro, mediante banche francesi, per poi convertirlo nel franco differente. In questo giro di cambi, le casse francesi arrivano a ricevere circa il 30% del valore dell’intera operazione guadagnando centinaia di milioni di euro all’anno. A questo punto, la domanda sorge spontaneamente: quali sono le cause della fame in Africa? Quali sono le ragioni delle fughe oceaniche dalla fame? Dovremmo liberare l’Europa da certi Africani, o forse liberare l’Africa da certi europei? Molti leader africani che avevano manifestato opposizione nei confronti di questo sistema hanno fatto una pessima fine. Come ricorda Pierluigi Magnaschi su Italia Oggi, molto dei dissidenti africani al Franco, sono stati uccisi (il fondatore della patria' burkinabe, Thomas Sankara,ill colonnello libico Gheddafi e Sylvanus Olympio. "Primo presidente eletto della repubblica del Togo” ucciso tre giorni dopo da uno squadrone di soldati, appoggiati dalla Francia). E queste sono solo pochissime delle disgrazie che accadono quotidianamente in Africa.

OGNUNO HA QUEL CHE SI MERITA!

“Ognuno ha quel che si merita” è il titolo di una canzone di Fabrizio Moro, uno dei cantanti che più apprezzo e i cui testi mi colpiscono sempre di più. Eppure, a pochi giorni dalle elezioni amministrative, nella mia mente si illumina questa frase e mi chiedo, anzi vi chiedo, veramente “ognuno ha quel che si merita?”. Tutti meritano tutto? Pochi meritano tutto? Nessuno merita tutto? Soltanto (o addirittura) il 52% dei catanesi ha votato. Come giudichereste quest’affluenza? A casa mia, è stata oggetto di un confronto generazionale: per mio padre, da sempre interessato alla politica, si è trattato di un successo; per me, invece, che sono un’ “inguaribile sognatrice”, è stata una mezza sconfitta. Mi guardo intorno e penso “1 persona su 2 non ha votato” e mi interrogo sulle mie responsabilità, cioè “mie” in quanto appartenente ad una comunità, quella catanese. .Dunque, se quest’amministrazione produrrà i risultati da chiunque – penso – sperati, da chi saranno meritati? Da tutti o solo dai componenti del famoso 52%? Giudizio troppo labile per poter definirlo... Piuttosto, però, possiamo porci una sfida: un incremento al 72, all’82 e, perché no, al 92%. Il voto è il primissimo strumento di responsabilizzazione della cittadinanza. Chi non vota, chi non esprime una preferenza, ha perso in partenza e mai potrà salire sul “carro dei vincitori”. Oppure lo farà comunque. La rappresentanza attuale è espressione soltanto della metà della cittadinanza o, volendo considerare la maggioranza di quel meraviglioso rapporto dialogico che è la democrazia, è espressione soltanto di una minoranza: la maggioranza in seno al Consiglio comunale è stata scelta da una minoranza di catanesi. Discorso contorto, lo so. Avrei potuto scriverlo meglio? Senza ombra di dubbio. Ciononostante, più leggo le mie parole, più mi convinco dell’esistenza, accanto al diritto/dovere di voto, di una posizione soggettiva di spettanza o, forse, onere, cioè la partecipazione attiva e, quindi, un avvicinamento della cittadinanza all’amministrazione. In caso a chi sta questa posizione? Al cittadino comune, a mio avviso. E a chiunque rivolgo un’ulteriore domanda: perché è forte l’astensionismo? Va inteso come una presa di posizione, di disinteresse? Ai miei occhi, appare come carenza d’amore, verso il proprio territorio, verso la propria città. Non è (più) accettabile lo slogan “la politica non fa per me” nella misura in cui siamo chiamati a scegliere chi amministrerà la nostra realtà. Pertanto, “ognuno ha quel che si merita”? Se l’assetto comunale migliorerà in termini di sviluppo, coinvolgimento, si potranno fare i complimenti alla maggioranza, riconoscendo agli elettori della stessa di aver avuto ciò che desideravano, meritavano. Ma se l’esito dovesse essere negativo? Il maggiore responsabile, la peggiore delle cause, sarà l’astensionismo.

IL LINGUAGGIO DELLE EMOZIONI

È strano descrivere la musica a parole: la musica è proprio ciò che ci fa sentire vivi quando non possono essere usati termini e definizioni. La musica è il linguaggio delle emozioni e l’espressione del proprio io. Per questo non posso che raccontare il mio personale rapporto con essa. Le note hanno segnato il tempo dei miei battiti sostanzialmente da sempre: dalla danza al pianoforte, dalla chitarra al canto. Eppure se non si studia, se non si fatica per capirla, ogni melodia resterà sempre ad uno strato superficiale e bruto. Lo penso perché dall’età di 10 anni ho iniziato a comporre canzoni e piccole sinfonie, e non vi mentirò: riuscire a trasporre se stessi in un pentagramma è estremamente complesso e intricato. È necessario imparare le basi musicali e il suo “alfabeto” per riuscire a realizzare armonie complete e armoniose. Eppure è bene precisare che un compositore non è un bravo concertista ed esecutore: un compositore deve indagare se stesso, scavare tra le paure e insicurezze ed estirparle dal piccolo scrigno che custodisce gelosamente. La musica è quindi quell’istante di sintonia con l’universo, quell’armonia differente e unica ogni volta che si sperimenta. E non serve essere musicisti o compositori per ritrovarsi nelle mie parole. Quante volte ascoltiamo quelle canzoni che crediamo ci rappresentino? Quante volte sentiamo l’esigenza di premere play e spegnere la mente per lasciar scorrere solo energia vitale? Quindi diciamoci la verità: la musica è in noi come noi in lei. Per cui cantiamo, scriviamo testi, sfioriamo i tasti di pianoforte a coda o corde di chitarra acustica! Perché saranno scudi difensivi e valvole di sfogo, saranno specchi senza inganno, saranno compagnia nella più triste solitudine, saranno scale verso il tutto. Lo sono da sempre per me e spero di essere riuscita a darvi un piccolo assaggio della musica, così maestosa e immensa, così intima e cara.

PERCHE' E' IMPORTANTE LA GIORNATA MONDIALE DELL'OCEANO?

Il “World Oceans Day” si celebra l’8 giugno, data istituita dalle Nazioni Unite nel 2008. L’obiettivo consiste nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul ruolo essenziale che gli oceani assumono per la vita del pianeta. L’idea di una “Giornata mondiale degli oceani ′′ viene proposta per la prima volta dal Canada durante l’Earth Summit di Rio de Janeiro nel 1992. Da allora, è stata istituita in molti Paesi, prima di essere ufficialmente riconosciuta dalle Nazioni Unite nel 2008. In più, ogni anno, il consenso e le adesioni all’appuntamento crescono. E aumentano anche le iniziative ad hoc per la Giornata. Si celebra, non solo l’oceano, ma anche il rapporto del singolo con il mare. Finalità importante è anche la sensibilizzazione sull’influenza che l’Oceano ha sulle nostre vite e sulla salute dell’ambiente. L’oceano riveste oltre il 70% del pianeta, rappresenta il 95% della biosfera, produce almeno il 50% dell’ossigeno del pianeta, ospita la maggior parte della biodiversità terrestre. L’oceano è la principale fonte di proteine per oltre un miliardo di persone, nonché la principale fonte di sostentamento per circa 3 miliardi e fonte di lavoro per 40 milioni di persone. E tu, lo sapevi?

LETTERA DI UN PROF. UNICT - VIVERE IL PRESENTE COME UN DONO

A lungo ho pensato di cercare la felicità e, dopo tanto lavorare, crescere, superare avversità, con tenacia e ambizione, penso che essa risieda nel dono. Non nel senso di regalare qualcosa a qualcuno, ma in quello, più autentico, di donare qualcosa di proprio; meglio, donarsi, dedicando se stessi a qualcuno. Attraverso pensieri, parole e azioni rivolte al senso stesso della propria vita: l’Amore. Spesso ci si chiede perché viviamo e perché ci affanniamo ogni giorno ad inseguire il tempo. Talvolta ci si sente smarriti, privi di punti di riferimento, senza certezze, una vita in divenire che sembra costruita meticolosamente per essere una solida realtà, indistruttibile e, invece, così fragile, mutevole, instabile. In questo moto ondoso dell’incertezza ci si trova avvolti dai flutti, trascinati in fondo al mare e di nuovo riemersi, sbattuti sulla sua superficie come su di una lastra di marmo; ogni forza di reazione sembra inutile, ogni ferma convinzione lacerata dall’incertezza... ma lì c’è la speranza, la possibilità che la tua vita, nell’Amore, possa davvero dirsi perpetua, senza inizio e senza fine, e scopri che tu sei un oceano infinito di emozioni, di gioia, dolore, tristezza, solitudine, successo, fallimento, risa e pianto, e che i nostri occhi, le nostre mani, l’odore della nostra pelle, i nostri sorrisi, sono la nostra vita e il significato più profondo delle nostre anime e di quelle che verranno da noi e che saranno vita dopo di noi.

SALVE AVVOCATO, VORREI COMPIERE LA PRATICA FORENSE PRESSO IL SUO STUDIO!

“Dopo anni di studio è finalmente giunta l’ora della rinascita, inizierò a lavorare, affronterò quella realtà tanto bella quanto oscura.” Questo è il pensiero di molti laureati in giurisprudenza, da qualche anno sempre meno numerosi. La fine degli studi con l’inizio della pratica è un passaggio fondamentale per il giovane giurista. Con quale preparazione ci arriva? Quali garanzie e soprattutto quali strumenti ha fornito l’università al neolaureato? Se non in crisi almeno in affanno. È così che la professione si presenta agli occhi dei ragazzi alle prese con la programmazione del loro futuro, complice un impianto formativo che è ancora imperniato pressoché interamente sulla laurea magistrale e ciclo unico di durata quinquennale e che non sembra tenere conto delle nuove esigenze professionali emerse sul campo e sulla realtà sociale in cui oggi viviamo. Il primo obiettivo, ovviamente, non può che identificarsi con l’inizio della pratica, ed è lì che iniziano, purtroppo, i primi problemi. I neolaureati iniziano a inviare email e CV agli Studi legali della città richiedendo di iniziare la pratica forense. Il più delle volte il diniego è accompagnato da parole cortesi e da qualche nota di incoraggiamento che non spengono la delusione di chi pensava che il conseguimento della laurea sarebbe stata la pietra angolare del proprio futuro lavorativo. A questo punto proviamo a metterci per un attimo nei panni di questi ragazzi e chiediamoci quanta importanza e quanta influenza potrebbe avere per un praticante avvocato essere accolto in uno Studio legale e allo stesso tempo chiediamoci quanto possa influire psicologicamente nel ricevere: “No, nel mio studio non c’è posto. [...] Il praticante deve trovare entusiasmo nel lavoro che fa e questo entusiasmo può essere dato solo dal Dominus che lo segue, gli insegnerà il mestiere, le strategie, gli ispirerà soluzioni giuridiche e fattispecie nuove e attuali. Un aspirante avvocato, deve conoscere alla perfezione, ad esempio, tutti i segreti delle cancellerie: quando conviene mettersi in fila, quando conviene ripassare, come impiegare il tempo che si trascorre nell’attesa, e così via. [...] Dal punto di vista economico la professione di avvocato non offre da tempo le stesse prospettive che offriva sino a dieci anni fa, è vero, ma questo deve invogliare gli aspiranti avvocati a impegnarsi ancor di più. Lasciamo che le cose continuino così? Ognuno è libero (si fa per dire) di andare incontro al suo destino. Un giovane che oggi si laurea in giurisprudenza, ed è determinato a diventare un avvocato, pur non avendo un amico o un parente disposto ad accoglierlo nel suo Studio per fare pratica, cosa deve fare? Forse è banale, ma deve continuare per la sua strada, non arrendersi perché l’occasione giusta arriva per chi crede veramente in questa nobile professione.

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